La storia più recente ci porta agli impianti in oro di Maggiolo (1809) (fig.1), ritenuto da molti francese perché diede relazione di questo primo impianto nel suo “Manuel de l‟art dentaire” a Nancy dove si era trasferito durante la Repubblica Cisalpina, ma era italiano, di Chiavari (5). Maggiolo installò un impianto in oro in un sito postestrattivo e realizzò la protesi solo dopo la cicatrizzazione tissutale.
Circa cent'anni dopo l'inglese Grienfield (1909) sperimentò sull'uomo un particolare impianto, soprannominato "gabbia di Grienfield". Utilizzò dei cilindri scheletrati a castello in platino-iridio, saldati con oro 24 k., da immettere in corrispondenti intarsi circolari, creati nell‟osso con frese cave dentate (fig.2)
Casto (1914) e Kauffer (1915) riferirono su alcuni casi d‟edentulismo parziale “risolti” con protesi fisse ancorate ad impianti endoossei “a spirale”in platino-iridio. Vent'anni più tardi Abel eseguì delle protesi ancorate a viti endoossee in porcellana (1934).
Fu l'introduzione del leghe a base di cromo che rivoluzionò la storia degli impianti dentali. Nel 1946 Veneble e Stuck dimostarono la passività (sul pianto elettrolitico) della Vitallium (lega di cromo-cobalto). Sulla scia di queste scoperte, nel 1938 Adams progettò la prima vite piena, anche se non abbiamo prove che egli abbia mai applicato clinicamente il suo impianto.
E poco dopo i fratelli Strock(fig.4) di Boston (1939) usarono delle viti in Vitallium su cani e pazienti.
Quale ancoraggio protesico, usarono delle viti piene autofilettanti in cromo cobalto (Vitallium) che pur avendo avuto dei buoni risultati vennero osteggiate negli Stati Uniti e ignorate in Europa(10). Essi furono i primi ad effettuare studi istoligici di implantologia sui cani.
Seguiranno poi gli impianti sottoperiostei dello svedese Gustav Dhal nel 1942 (fig.5). Questi ideò gli impianti a bottone: piccoli bottoni metallici venivano inseriti sulla superficie interna della protesi totale, quindi venivano creati chirurgicamente dei fori corrispodenti nella mucosa del paziente, così che quanto veniva inserita la dentiera i bottoni ingaggiavano i fori nella gengiva e ciò aumentava la ritenzione della protesi. Il problema con questa tecnica era il fatto che il paziente non poteva togliere mai la protesi., altrimenti i fori tendevano a chiudersi e l'inserzione avrebbe causato dolori e/o ulcerazioni.
Nel 1947 il modenese Formiggini ideò e applicò le sue viti cave spiraliformi, in filo d‟acciaio e tantalio, e chiamò il metodo “Infibulazione diretta endoalveolare”. La tecnica di Formiggini incontrò molto scetticismo perché difettava sia di controlli a distanza, sia di ricerche istologiche, ma negli anni successivi si dovette riconoscere che alcuni successi della sua vite, anche se inferiori ai numerosi insuccessi, rappresentavano una realtà clinica incontrovertibile. Le viti venivano formate estemporaneamente a partire da un filo che veniva avvolto su se stesso e perciò le viti erano tutte diverse tra di loro. Uno dei problemi principali è che c'erano troppe spire e ciò impossibilitava l'operatore dal sommergere tutte le spire all'interno dell'osso. Inoltre per poterle inserire l'apertura ossea era tale da facilitare l'invaginazione epiteliale. Comunque Formiggini è considerato il padre dell'implantolologia europea.
Nei primi anni ‟60 comparvero le prime lame di Linkow che segnarono una svolta nella diffusione dell‟implantologia; vennero in seguito modificate in varie versioni dallo stesso Linkow, da Pasqualini (fig.8), Pierazzini (fig.9), Tramonte (fig.10) (e numerosi altri autori tedeschi ed americani: Fagan, Misch, Tatum, Graffelmann ecc.) ancor oggi usate con successo(7). Flohr nel 1953 tentò degli impianti con viti in resina rinforzati in acciaio, riprendendo la tecnica proposta vent‟anni prima da Abel, modificata però nel materiale: la resina, da poco apparsa in odontoiatria, al posto della porcellana.
Lama polimorfa di Pasqualini
maxilama di Pierazzini
Lama universale di Tramonte
a. Peron Andrei; b. Zepponi vite di Cherchéve
Nel 1957-58 comparvero delle rielaborazioni della spirale di Formiggini, in Italia ricordiamo Galluzzo, con la pubblicazione di un caso eseguito da Pini-Sordo e controllato dopo otto anni da Zepponi con diversi lavori di ricerca sulle reazioni istologiche dei tessuti includenti. All'estero il metodo ebbe entusiasti sostenitori Peron Andrei (fig.11), Cherchève („61) e Lehman (10). Muratori nel 1962 propose le sue viti “cave”, che si rifacevano (a detta dello stesso autore) all‟idea originale di Fomiggini, con sostanziali miglioramenti di forma, struttura e tecnica chirurgica, in parte gia realizzati da Cherchevè (fig.12-13) (11).
Vite cava Muratori Vent Plant di Linkow Vite Tramonte
Vite Sandhaus
Fig.13: La vite cava di Muratori.
Fig.14: La Vent Plant di Linkow.
Fig.15: La vite di Tramonte.
Fig. 16: Vite di Sandhaus con spire smusse.Fatta in zaffiro.
Sempre nel 1962 il francese Jacque Scialom sviluppò i suoi aghi di tantalio.
Purtroppo, nell‟opinione della maggioranza degli specialisti, furono gli insuccessi, più numerosi e clamorosi dei successi, a determinare un generale atteggiamento di rifiuto, così che l‟implantologia endoossea rimase in sostanza appannaggio di pochissimi, spesso rappresentati dai soli Autori delle singole metodiche. Una coraggiosa nonché geniale ripresa della tecnica d‟infibulazione si ebbe con Tramonte nel 1959 con la sua vite “autofilettante” in titanio(12, 13). Linkow realizzò 1963 le Vent Plant (fig.14), viti cave sommerse con moncone rimovibile, che anticiparono di parecchi anni gli impianti osteointegrati. Nel 1963 comparve la vite Tramonte nella sua forma definitiva (fig. 15) dalla quale sono poi derivati numerosi altri tipi di vite piena(14) , da quelle di Sandhaus (fig.16) (11), a quelle di Garbaccio (fig.17), di Marini (fig.18), di Pierazzini (fig.19) (8) e numerose altre anche sommerse tipo le CEAM(15). Le viti di Tramonte hanno un moncone fisso, tuttavia fu tra i primi a disegnare una vite a moncone rimovibile ed orientabile che anticipò di molti anni lo stesso tipo di moncone usato negli impianti osteointegrati e che tuttavia non incontrò il favore degli implantologi che preferivano la vite a moncone fisso. Dal 1961 al 1967-68, malgrado numerosi insuccessi dovuti all‟inesperienza chirurgica, protesi mal eseguite ed altre cause per quel tempo ignote, si ebbero anche dei successi duraturi. Nel 1969 Standhaus propose l‟uso di viti endoossee in zaffiro sintetico, che però non migliorarono le statistiche già ottenute con le viti d‟acciaio chirurgico, cromo cobalto e titanio. Sempre negli anni 1960 si svilupparono altre tecniche d‟implantologia endoossea, differenti per concezione e metodo dalle metodiche per infibulazione a vite. Di esse le più note sono l‟implantologia “ad aghi” di Scialom (16).
Vite di Garbaccio Vite di Marini
Viti di Pierazzini
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Vi furono poi numerose modifiche apportate a lame e viti fra cui le lame “universali su misura” di Muratori (1970), le “barre subcorticali” di Pasqualini, le lame polimorfe “senza moncone” di Pasqualini (1972), l‟impianto “transcorticale” di Pasqualini Russo (1973) ed il bloccaggio degli aghi con la “saldatura endorale” di Mondani (1975). Gli 11 impianti a “T” rovesciata “Fial” di Lo Bello (1973-76) e la vite bi-corticale di Garbaccio (1972) (17, 18, 19, 20), la vite “rapida” di Ugo e Marco Pasqualini (1980) (3). Possiamo così ben dire che l‟arco di tempo che va dal 1940 al 1975, fu crogiuolo prolifico di idee e trepidante fare, tale da gettare le basi, e non solo, dell‟implantologia tanto che ad ogni “novità” oggi presentata possiamo dire “già visto”. L‟implantologia, insegnata da Linkow e pochi altri attraverso corsi privati incontrò il favore di molti dentisti, spesso privi delle necessarie cognizioni si anatomia, chirurgia orale, gnatologia, parodontologia e protesi, che tuttavia erano proposte come fattori essenziali per il successo sia da Linkow che da Pasqualini, James, ed altri (21, 22, 23). Di conseguenza si verificarono inizialmente degli insuccessi, che pur essendo in numero limitato, offrivano ai detrattori della nuova branca l‟occasione di manifestare la loro ostilità. L‟accusa più grave che veniva fatta era che gli impianti erano inseriti parzialmente nelle ossa mascellari e pescavano nel cavo orale; era quindi da attendersi una osteomielite dei mascellari, che in realtà non si verificava mai. Si verificavano riassorbimenti ossei e fatti infiammatori limitati solo alla sede perimplantare nei casi relativamente poco numerosi di insuccesso. Non si poteva allora spiegare le ragioni della rarità dei fatti di peri-implantite poiché mancavano ancora studi istologici. Quando gli studi istologici di James, di Linkow e degli italiani Pasqualini e Ruggeri e altri (24, 25, 26-41), misero in evidenza la formazione di un periimplanto e di uno pseudo attacco epiteliale che si comportano in maniera analoga al parodonto ad all‟attacco epiteliale, ci fu la risposta alle accuse che venivano fatte, ma purtroppo tali ricerche rimasero pressoché ignorate. Le università, Europee ed Americane, avrebbero dovuto prendere in mano l‟iniziativa per le ricerche relative all‟implantologia, che erano lasciate alla perseveranza di pochi ricercatori. 12
Poco più di vent‟anni dopo l‟avvento dell‟implantologia a lama e viti, aghi, sottoperiostei, che era andata migliorando nel tempo dando risultati soddisfacenti, con percentuali di successo superiori al 95%, lo svedese Branemark (fig.20) elaborò una nuova dottrina che chiamò osteointegrazione(42). Tale dottrina conquistò le università, contrapponendosi alla precedente tecnica che solo allora venne chiamata erroneamente fibrointegrazione.
Vite di Branemark Viti Bonefit
Viti IMZ Viti di Tubingen
I parametri principali della nuova dottrina erano: l‟uso di impianti cilindrici o a vite cilindrica e il carico ritardato fino ed oltre sei mesi. L'utilizzo di questi mezzi avrebbe determinato assenza di connettivo nella interfaccia osso-impianto, connettivo che veniva giudicato negativamente e foriero di insuccesso. L'applicazione di questi parametri riduceva in modo drastico gli insuccessi al 3-4%.
Sulla base di questa dottrina sono stati realizzati numerosi altri tipi di impianti sommersi definiti osteointegrati, quali il Bonefit, gli IMZ,i Tubingen e molti altri, tanto che il mercato è stato invaso da una serie numerosissima di tali impianti. L'accettazione di tale dottrina ed interpretazioni non complete dei tessuti periimplantari hanno portato alla convinzione che la tecnica osteointegrazioista sia più valida di quella così detta erroneamente fibro-osteo-integrazionista. La tecnica osteointegrazionista ha avuto la possibilità di portare alcuni avanzamenti nella tecnica implantare, non tanto per la tecnica stessa, quanto per la comparsa di nuovi mezzi diagnostici (TAC, Dentalscan), di nuovi materiali osteogenetici, dei vari tipi di membrane, di nuove tecniche per il rialzo e l‟espansione delle creste alveolari, per il rialzo del pavimento del seno mascellare e del pavimento nasale, del prelievo di osso autologo dalla calvaria cranica e dalla cresta iliaca, dal fatto che tale tecnica era usata inizialmente per lo più da chirurghi orali e maxillo-facciali, che avevano la possibilità e l‟esperienza sufficiente per eseguire interventi più complessi e più invasivi, non alla portata del dentista comune. La tecnica osteointegrazionista è stata costretta ad inventare nuove tecniche operatorie, e tra di esse certamente la più nota è l‟espansione e il rialzo delle creste: poiché non si poteva certamente inserire un impianto del diametro di 5 mm e della altezza di 20 mm in una cresta di 3-4 mm di spessore e di altezza 10 mm. Era gioco forza procedere ad una espansione della cresta. Tale espansione non era necessaria con le lame, viti e gli aghi, che potevano essere inseriti tranquillamente anche in creste di 3-4-5mm di spessore.
Certamente dobbiamo riconoscere che l'espansione delle creste ottenuta con metodi più invasivi e più costosi e con rischi maggiori, riportava ad uno stato anatomico quasi normale dell‟osso riassorbito con risultati estetici migliori. Ma anche i risultati ottenuti con lame, viti e gli aghi davano quasi sempre risultati favorevoli sia per durata, sia per la funzionalità e l‟estetica nella massima parte dei casi. Avevano inoltre il vantaggio di minore costo, di una invasività minore e potevano essere inseriti in casi in cui gli interventi più impegnativi con cilindri sepolti potevano creare qualche problema; per esempio impianti ad ago o a vite potevano essere inseriti in persone anziane o con problemi circolatori, senza sottoporle a traumatismi operatori importanti. Non è stato considerato che, gli stessi interventi che venivano eseguiti con impianti cilindrici, potevano essere tranquillamente eseguiti e lo sono stati, con impianti a vite o a lama. Se non erano stati eseguiti in precedenza, questo era dovuto al fatto che tali tecniche ancora non esistevano e che comunque gli impianti esistenti erano sufficienti a risolvere molte situazioni. Per fare un solo esempio, oggi gli interventi di rialzo del pavimento del seno mascellare vengono eseguiti con impianti cilindrici sommersi, eppure Tatum, Misch, Spencer, Pierazzini, che sono stati tra i primi ad eseguire tali interventi, usavano le lame e Pierazzini anche le viti Tramonte con ottimi risultati. Rialzi del seno con lame e viti da lui eseguiti hanno una vita di oltre 15 anni. Impianti analoghi eseguiti con lame da Tatum, che è stato il primo in senso assoluto, hanno anche durate maggiori fino a 25-30 anni. Lo stesso si può dire per interventi di espansioni o di rialzo delle creste. Vi è stata, diremo così, una super valutazione dell'impianto cilindrico legata al fatto che gli operatori conoscevano solo quello e non avevano né informazioni né esperienza diretta sui precedenti impianti. Vi è stato anche un fattore economico commerciale che ha influito positivamente sulla preferenza accordata alla tecnica osteointegrazionista. Ciò ha determinato uno stato di antagonismo tra le due scuole legato ad alcuni fattori: – la presunzione che gli impianti osteointegrabili fossero migliori degli altri. – la disinformazione degli ultimi operatori, nati alla scuola osteointegrazionista, sulla letteratura ed esperienza diretta di altre morfologie implantari; 15
– che molti operatori della prima ora hanno usato impianti solo cilindrici facendosene una notevole esperienza; solo ultimamente è aumentato il numero di partecipanti a congressi e corsi di altre tecniche implantologiche; – il fatto che quasi tutte le università seguano la tecnica osteointegrazionista, ad eccezione di poche che usano ambedue le tecniche. Sono passati più di vent‟anni dalla nascita della osteointegrazionista, il tempo e le ricerche hanno evidenziato alcuni fattori già noti alla precedente scuola: – la comparsa di insuccessi implantari anche con impianti osteointegrati; – il riconoscimento che l‟osso non è mai in contatto diretto con la superficie implantare per la interposizione di una sottile lamina di proteoglicani già identificata oltre trenta anni prima da James e Ruggeri; – il riconoscimento che il carico immediato può essere accettabile ed in certi casi può provocare una migliore integrazione dell‟impianto nell‟osso; – l‟importanza che assume la densità del tessuto in cui l‟impianto viene inserito. Questi e altri fattori già noti e descritti nella letteratura pre-osteointegrazionista, sono stati riscoperti atutonomamente dalla scuola osteointegrazionista, il che ne conferma la validità.
Un doveroso e sentito ringraziamento va al prof. Paolo Zampetti dell'Università di Pavia che negli anni ha fornito un importante contributo alla ricostruzione della storia dell'odontoiatria.
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